‘Signal for help’ non serve: problema non è chiedere aiuto, ma riceverlo

ROMA – Nella digitalizzazione espansa come una bolla anche il contrasto alla violenza contro le donne diventa un video virale. Si chiama ‘Signal for help’ ed è arrivato sui cellulari di tutti in queste ore. Quattro dita della mano tese, col pollice chiuso, che si ripiegano a chiudere la mano, con il palmo rivolto verso lo schermo o l’interlocutore, mentre si è braccate dall’aggressore. Si può far finta di salutare un passante dalla finestra o ritirare un pacco o piazzarsi davanti al cellulare. Et voilà. Il dopo non lo conosciamo. L’iniziativa è partita dal Regno Unito, dopo l’assassinio della 33enne Sarah Everard.

Uno strumento almeno per il nostro Paese mistificatore, che lascia una forte amarezza. Banalizza, offre un espediente tecnico a un problema ben più complesso, e non risponde alla vera emergenza italiana. Ma non è tutto. Rappresenta la resa all’idea che si debba ormai vivere in questo isolamento. E così ingabbiati troviamo linguaggi muti per mettere il muso fuori dalla prigione. È avvilente, è mortificante. L’idea, fasulla, che ne potrebbe venir fuori è che servano legge migliori o più efficaci, e magari giù nuovi numeri, nuove linee rosa, nuova messaggistica per lanciare un SOS. Nel nostro Paese la fragilità non sta nei dispositivi di legge, ma nella loro applicazione tempestiva e cautelare, nella certezza della pena, nell’omertà culturale feroce che scoraggia la denuncia, nella vittimizzazione secondaria che induce le donne a non chiedere più aiuto dopo anni di tortura e di rischi e di sacrifici economici insostenibili perché la giustizia si paga cara. Il problema è tutto al contrario in Italia. Non abbiamo problemi a chiedere aiuto, ma a riceverlo.

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