Diversi studi hanno già evidenziato un collegamento tra zone inquinate e maggior impatto del coronavirus. Una nuova ricerca dell’Università di Catania, conferma che il Covid 19 colpisce di più dove vi è maggior inquinamento (ma non solo).
Fattori come appunto l’inquinamento atmosferico, possono influire sull’epidemia che stiamo vivendo, in termini di decessi e terapie intensive, in pratica aumentando il rischio di contrarre la malattia e svilupparla in forme gravi. E potrebbero bastare anche lievi aumenti delle polveri sottili.
Ci sono delle regioni del nostro paese che hanno vissuto in maniera più drammatica la presenza del nuovo coronavirus e questo potrebbe essere proprio da imputare, tra altri cofattori, ad un problema di inquinamento più serio.
A confermarlo lo studio “A novel methodology for epidemic risk assessment of COVID-19 outbreak”, pubblicato su Nature Scientific Reports, che ha evidenziato come, non solo l’inquinamento ambientale ma anche la mobilità, la densità abitativa, la densità ospedaliera, la temperatura invernale e l’anzianità della popolazione sono tutti cofattori da considerare per valutare il diverso impatto della pandemia nelle regioni italiane.
Come si legge nella ricerca, l’indice di rischio è stato valutato in funzione di tre diverse componenti: la pericolosità della malattia, l’esposizione del territorio e la vulnerabilità dei suoi abitanti.
“Caratterizziamo ciascuna delle venti regioni italiane utilizzando i dati storici disponibili su inquinamento atmosferico, mobilità umana, temperatura invernale, concentrazione abitativa, densità sanitaria, dimensione ed età della popolazione. Troviamo che il rischio epidemico è maggiore in alcune regioni del Nord rispetto al Centro e Sud Italia. Il corrispondente indice di rischio mostra correlazioni con i dati ufficiali disponibili sul numero di individui infetti, pazienti in terapia intensiva e pazienti deceduti, e può aiutare a spiegare perché regioni come Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto hanno sofferto molto di più delle altre del paese. Sebbene l’epidemia di COVID-19 sia iniziata sia nel Nord (Lombardia) che nel Centro Italia (Lazio) quasi contemporaneamente, quando i primi casi sono stati ufficialmente certificati all’inizio del 2020, la malattia si è diffusa più rapidamente e con conseguenze più pesanti nelle regioni con rischio epidemico più elevato. Il nostro quadro può essere esteso e testato su altri dati epidemici, come quelli sull’influenza stagionale, e applicato ad altri paesi” si legge nell’abstract dello studio.
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Analizzando tutti i dati, lo studio ha classificato le regioni italiane in 4 diversi gruppi di rischio (molto alto, alto, medio e basso):
“La graduatoria così stilata predice molto bene quello che è avvenuto realmente durante la prima e la seconda ondata di contagi e riesce a dare una spiegazione razionale e oggettiva del perché la regione a rischio maggiore sia proprio la Lombardia (rischio molto alto) seguita da Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna (fascia di rischio alto) ovvero da quelle regioni che, secondo i dati ufficiali dei decessi e delle terapie intensive, sono state maggiormente colpite dal Covid-19″ affermano i ricercatori.
Un studio utile anche a capire come differenziare le misure di contenimento, secondo gli studiosi:
“Nella fascia intermedia a rischio medio troviamo regioni come la Campania, la Puglia e la Sicilia, mentre fra quelle a rischio più basso il Molise e la Basilicata, che di fatto sono le regioni che hanno subìto un impatto minore. La differenza fra le regioni giustifica pure le diverse misure di contenimento che andrebbero quindi correttamente differenziate non solo in base al numero corrente dei casi di infezione, ma anche in base al rischio a-priori”.
Ma soprattutto è sempre più evidente che dobbiamo fare di tutto per limitare l’inquinamento atmosferico, cosa di fondamentale importanza anche al di là del coronavirus:
“Alla luce di questi studi si impongono quindi delle scelte obbligate per cercare di contenere l’impatto di questa pandemia e altre simili che potrebbero arrivare in futuro. È necessario ridurre drasticamente l’inquinamento atmosferico (la Pianura Padana è proprio una delle regioni più inquinate d’Europa) attraverso una progressiva transizione ecologica che preveda fra le altre cose una riduzione non solo della mobilità privata casa-lavoro, ma anche del numero degli allevamenti intensivi. Questa transizione va nella stessa direzione delle scelte urgenti da fare per frenare il cambiamento climatico, problema ben più grave di quello pandemico, ma ad esso fortemente correlato”.
Fonti: Nature / Università di Catania
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